V

IL PAESAGGIO ARIOSTESCO

A meglio intendere questa continua, costante, interna fusione del reale e del fantastico, del naturale e del meraviglioso, gioverà insistere sul carattere del paesaggio, sulle dimensioni in cui si presenta l’elemento spaziale nell’Orlando Furioso.

Già nell’Ottocento il Gioberti aveva fortemente insistito sui caratteri della strana «geografia storica e mitica» ariostesca, evidenziando cosí acutamente lo svolgersi, nel poema, di un continuo viaggio nello spazio, che, possiamo aggiungere, corrisponde allo stesso ritmo narrativo-poetico che percorre tutta l’opera, al bisogno ariostesco di una incessante mobilità.

Il passo già citato della Satira III può essere utile per capire il carattere tutto particolare di questo «viaggiare» ariostesco:

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,

quel monte che divide e quel che serra

Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta; il resto de la terra,

senza mai pagar l’oste, andrò cercando

con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;

e tutto il mar, senza far voti quando

lampeggi il ciel, sicuro in su le carte

verrò, piú che sui legni, volteggiando.

(vv. 58-66)

È una specie di viaggio fantastico, che presuppone, però, l’appoggio di una salda, sicura esperienza concreta, di paesaggi essenziali direttamente conosciuti, osservati, amati.

E tutto il poema è costruito su queste misure di viaggio, di un viaggio che si svolge complesso e vario in uno spazio e in un tempo di originalissima dimensione. Misure a volte estremamente dilatate (si pensi allo spazio percorso da Astolfo nel canto XXXIII, con lo sfogo esuberante del vagare senza scopo immediato, che si sbizzarrisce per ben sette ottave, attraverso un elenco gustoso e denso di nomi esotici italianizzati), a volte brevi e minute, con tutta una novità di spazi e di luoghi che sono il segno dell’integrazione che la fantasia porta alla realtà senza perderne però mai il colore e la concretezza, il fondamentale sentimento.

Spesso, nel giro di una o due ottave, spazi lunghissimi sono come raccorciati e potentemente sintetizzati dall’autore, che segue quei lunghi percorsi come su di una ideale carta geografica, arricchita da indicazioni toponomastiche assaporate nel loro accento insieme reale e fantastico. Ecco, nel canto XXII, un trasferimento velocissimo di Astolfo, il piú grande viaggiatore del poema, dall’Armenia fino a Londra:

E dopo alquanti giorni in Natalia

trovossi, e inverso Bursia il camin tenne;

onde, continuando la sua via

di qua dal mare, in Tracia se ne venne.

Lungo il Danubio andò per l’Ungaria;

e come avesse il suo destrier le penne,

i Moravi e i Boemi passò in meno

di venti giorni, e la Franconia e il Reno.

Per la selva d’Ardenna in Aquisgrana

giunse e in Barbante, e in Fiandra al fin s’imbarca.

L’aura che soffia verso tramontana,

la vela in guisa in su la prora carca,

ch’a mezzo giorno Astolfo non lontana

vede Inghilterra, ove nel lito varca.

Salta a cavallo, e in tal modo lo punge,

ch’a Londra quella sera ancora giunge.

(XXII, 6-7)

Altre volte invece, l’Ariosto indugia in descrizioni piú minute di paesaggi, con una varietà sterminata di elementi che offre uno dei piú affascinanti incantesimi della sua poesia: la ricchezza estrema di immagini di terre e di paesi. Dalle brume e dai mari del Nord, con la feroce isola Ebuda, le Orcadi, l’Inghilterra e la Scozia, alla dolce terra di Francia, con la ricchezza delle sue pianure e delle sue selve. E poi il paesaggio aspro e montuoso dei Pirenei, i deserti aridi della Spagna e dell’Africa Settentrionale, e giú ancora, dalle foci fino alle sorgenti misteriose del Nilo, presso la leggendaria terra del Prete Ianni o Senapo; e infine il Levante, con alcune descrizioni di città orientali, tutte insaporite da un gusto esotico e pittorico, che fa pensare a certa pittura tardo-quattrocentesca, magari a Gentile Bellini: per esempio, questo quadro della città di Damasco:

De le piú ricche terre di Levante,

de le piú populose e meglio ornate

si dice esser Damasco, che distante

siede a Ierusalem sette giornate,

in un piano fruttifero e abondante,

non men giocondo il verno, che l’estate.

A questa terra il primo raggio tolle

de la nascente aurora un vicin colle.

Per la città duo fiumi cristallini

vanno inaffiando per diversi rivi

un numero infinito di giardini,

non mai di fior, non mai di fronde privi.

Dicesi ancor, che macinar molini

potrian far l’acque lanfe[1] che son quivi;

e chi va per le vie vi sente, fuore

di tutte quelle case, uscire odore.

Tutta coperta è la strada maestra

di panni di diversi color lieti;

e d’odorifera erba, e di silvestra

fronda la terra e tutte le pareti.

Adorna era ogni porta, ogni finestra

di finissimi drappi e di tapeti,

ma piú di belle e ben ornate donne

di ricche gemme e di superbe gonne.

(XVII, 18-20)

Altre volte l’Ariosto creerà paesaggi piú direttamente fantastici, eppure capaci di ritrovare il segno e la suggestione delle cose. Cosí la costruzione della luna visitata da Astolfo si presenta come quella di un mondo in tutto simile, se pur maggiore, a quello terreno, dove appaiono le stesse cose che noi vediamo ogni giorno, ma dilatate, accresciute, con l’aggiunta poi del meraviglioso di ninfe che cacciano belve:

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne

sono là su, che non son qui tra noi;

altri piani, altre valli, altre montagne,

c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,

con case de le quai mai piú le magne

non vide il paladin prima né poi:

e vi sono ample e solitarie selve,

ove le ninfe ognor cacciano belve.

(XXXIV, 72)

Cosí l’isola di Alcina (dove giunge Ruggiero sull’ippogrifo) ci si presenta come un paesaggio, inizialmente quasi troppo dolce e aereo, che ricorda ancora la raffinatezza del Poliziano, anche se arricchita di una sinfonia piú matura, con una pienezza di toni larghi e distesi:

culte pianure e delicati colli,

chiare acque, ombrose ripe e prati molli.

Vaghi boschetti di soavi allori,

di palme e d’amenissime mortelle,

cedri et aranci ch’avean frutti e fiori

contesti in varie forme e tutte belle,

facean riparo ai fervidi calori

de’ giorni estivi con lor spesse ombrelle;

e tra quei rami con sicuri voli

cantando se ne gíano i rosignuoli.

Tra le purpuree rose e i bianchi gigli,

che tiepida aura freschi ognora serba,

sicuri si vedean lepri e conigli,

e cervi con la fronte alta e superba,

senza temer ch’alcun gli uccida o pigli,

pascano o stiansi rominando l’erba;

saltano i daini e i capri isnelli e destri,

che sono in copia in quei luoghi campestri.

(VI, 20-22)

Ma nell’ottava successiva, dopo le agili manovre di Ruggiero, lo stesso paesaggio riappare con una suggestione maggiore, in una potenza essenziale, evidenziato, dopo la precedente profusione vegetale, in quei tre alberi, mirto, lauro, pino, che sono come dei colori puri e insieme esatti e concreti, che ci permettono una distinzione maggiore di tutto il quadro su quello sfondo di mare con una prospettiva piú profonda e meno sfumata (con l’intervento, dunque, di elementi piú concreti su di un tessuto che poteva parere solo una trasfigurazione magica e preziosa):

Come sí presso è l’ippogrifo a terra,

ch’esser ne può men periglioso il salto,

Ruggier con fretta de l’arcion si sferra,

e si ritruova in su l’erboso smalto;

tuttavia in man le redine si serra,

che non vuol che ’l destrier piú vada in alto:

poi lo lega nel margine marino

a un verde mirto in mezzo un lauro e un pino.

(VI, 23)

E poco piú avanti, nel racconto di Astolfo, l’immagine dell’isola si presenterà, insieme con quella della stessa maga, nello stesso allargarsi di giri calmi e pausati, in una luminosa e liquida agevolezza:

E come la via nostra e il duro e fello

destin ci trasse, uscimmo una matina

sopra la bella spiaggia, ove un castello

siede sul mar, de la possente Alcina.

Trovammo lei ch’uscita era di quello,

e stava sola in ripa alla marina;

e senza rete e senza amo traea

tutti li pesci al lito, che volea.

(VI, 35)

Questi giri piú calmi funzionano da preludi alle scene piú mosse che seguiranno, della gioiosa pesca e dell’avventura di Astolfo. Si veda almeno l’ottava della pesca, dove, da un animato gusto di nomi rari e multicolori, aggruppati secondo suggestioni foniche e pittoresche, la fantasia ariostesca suscita un movimento voglioso e affettuoso, quasi effetto di un delicato erotizzamento di quello strano mondo animale:

Veloci vi correvano i delfini,

vi venia a bocca aperta il grosso tonno;

i capidogli coi vécchi marini[2]

vengon turbati dal lor pigro sonno;

muli, salpe, salmoni e coracini

nuotano a schiere in piú fretta che ponno;

pistrici, fisiteri, orche e balene

escon del mar con monstruose schiene.

(VI, 36)

Un altro paesaggio fortemente fantastico ci si presenta con la casa del Sonno, in un altissimo tono poetico, vivo nella sua impalpabile e pur solida continuità, nel suo liberarsi in una suggestione di soprasensibilità, che sa innestarsi, liricizzandola, sulla sensibilità piú ordinaria (e questo atteggiamento originalissimo conferma l’inutilità di ogni confronto con passi simili di Ovidio e di Stazio):

Giace in Arabia una valletta amena,

lontana da cittadi e da villaggi,

ch’all’ombra di duo monti è tutta piena

d’antiqui abeti e di robusti faggi.

Il sole indarno il chiaro dí vi mena;

che non vi può mai penetrar coi raggi,

sí gli è la via da folti rami tronca:

e quivi entra sotterra una spelonca.

Sotto la negra selva una capace

e spazïosa grotta entra nel sasso,

di cui la fronte l’edera seguace

tutta aggirando va con storto passo.

In questo albergo il grave Sonno giace;

l’Ozio da un canto corpulento e grasso,

da l’altro la Pigrizia in terra siede,

che non può andare, e mal reggersi in piede.

(XIV, 92-93)

In questo regno del Sonno vivono due personaggi, che delineano aperture fantastiche sulla base di gesti normali, comuni: l’Oblio, come affetto da una disgregazione intima che lo pervade fino all’azione automatica e maniaca, di un muto gesto che tiene lontano chiunque si avvicini, e il Silenzio, la cui immagine è concentrata in due particolari («le scarpe di feltro, e ’l mantel bruno») che aprono come una grande ala di silenzio, mentre quel cenno di mano traccia uno spazio vasto e insieme misurabile:

Lo smemorato Oblio sta su la porta:

non lascia entrar, né riconosce alcuno;

non ascolta imbasciata, né riporta;

e parimente tien cacciato ognuno.

Il Silenzio va intorno, e fa la scorta:

ha le scarpe di feltro, e ’l mantel bruno;

et a quanti n’incontra, di lontano,

che non debban venir, cenna con mano.

(XIV, 94)

Come i paesaggi piú fantastici riescono a trovare elementi che sanno renderli quasi concreti, definiti, cosí anche quelli che sembrano essere piú aderenti, piú immediatamente vicini alla riproduzione della realtà, presentano sempre qualche intervento della fantasia, che dilata la realtà e la rende fantastica, come in questo quadro di natura, cui viene aggiunta quasi una nuova dimensione con l’introduzione di un semplice frinire di cicala in un paesaggio arido, meridionale, desertico:

Percuote il sole ardente il vicin colle;

e del calor che si riflette a dietro,

in modo l’aria e l’arena ne bolle,

che saria troppo a far liquido il vetro.

Stassi cheto ogni augello all’ombra molle:

sol la cicala col noioso metro

fra i densi rami del fronzuto stelo

le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo.

(VIII, 20)

Entro una realtà riprodotta in maniera cosí vicina, concreta, quel semplice suono crea una dilatazione, un accrescimento in spazi profondi e soprareali, fino all’iperbole finale, ricca di suggestione poetica, lontana da ogni preziosismo di tipo marinistico.

Dunque il valore del paesaggio nel Furioso può essere compreso solo inserendolo all’interno della linea funzionale dell’opera: l’Ariosto non insiste mai a fissarlo in una sua esteriore autonomia. E anche i paesaggi piú precisi e definiti non ci vengono mai imposti come fine ultimo di una descrizione, ma sono sempre pronti a dissolversi in quella specie di carta geografica fantastica e non grottesca che rende favolosi gli spazi, le proporzioni della terra, pur nutrendosi di un senso caldissimo di spazio vissuto, di aria impastata di luci, di ombre, di oggetti.


1 Nota acque lanfe: acque profumate con essenze.

2 Nota vécchi marini: vitelli marini.